Il quarto album dei napoletani Sula Ventrebianco è il loro lavoro più maturo è completo, con il fascino tragico di un concept sulla fine delle cose terrene.
La copertina di “Più niente” ci dice molto sul quarto album dei Sula Ventrebianco; quel cuore di ghiaccio non solo ne incarna il concept, ma è il simulacro di un lavoro massiccio, imponente e ambizioso come solo un album di sedici tracce guitar-oriented nel 2017 può essere, complesso come un cuore anatomico ma insieme trasparente.
Ascoltato di fila, restituisce la coerenza di un blocco unico e i riflessi cangianti e imprevedibili di una superficie cristallina irregolare: strizzate d’occhio ironiche al rock radiofonico, tirate garage-synth, mini strumentali stoner, riffing e ritmi muscolari che giocano a rincorrersi con melodie contagiose, canzoni tenere, riflessive o ruffiane che, scimmiottando la rock ballad classica, creano qualcosa che può farne le veci mentre il mondo (a ragione?) celebra i funerali del rock. È una celebrazione eretica del culto della musica pesante, una liturgia post-stoner che attraverso un approccio adogmatico alla melodia dà vita a una personalissima forma-canzone.
Niente di diverso da quello a cui ci hanno abituato i quattro napoletani, soprattutto con l’ultimo "Furente", ma qui il loro discorso raggiunge la maturità espressiva, presentando in forma più compiuta ciò che prima era accennato: più sintetizzatori, maggior peso alle tastiere e un quartetto d’archi che si aggiunge al violino; la tavolozza degli arrangiamenti si arricchisce di sfumature nuove e una nuova tridimensionalità, mentre un’alchimia delicata fra i momenti più melodrammatici e quelli scanzonati, tra i riff più ricercati e l’anima pestona, protegge dal rischio di strafare con le pomposità o di annoiare con la lunghezza. Anche perché l’ultima tranche di pezzi è un crescendo di perle che culmina con "Amore e odio", uno dei picchi di pathos del lavoro e una sorta di title-track spuria che conclude il disco racchiudendone il senso: cose, persone, affetti, tutto è condannato a un ineluttabile processo di consunzione. Un destino cosmico visto attraverso gli occhi di Sasio Carannante, occhi che osservano gli anni correre e i rimpianti accumularsi insieme a passi e cicatrici, restituendoli in forma immaginifica ma con un’inedita chiarezza. Restituiscono però anche un’immagine delle cose a cui vale la pena stringersi prima che tutto finisca: la musica, se stessi (”Da oggi sarò sempre qui con me”), la figlia a cui è dedicata “Resti” (”lo sai non m’importerà se sarai troppo fragile/lo sai prima di morire dovrò amarti sempre”).
È difficile inquadrare i Sula Ventrebianco nel panorama musicale contemporaneo. Eppure loro sono qui, con canzoni che rivendicano sfacciatamente un’appartenenza rock d’altri tempi ma suonano fresche come poche cose in questo genere. Dovendo fare un accostamento, viene naturale pensare ai Verdena di "Endkandenz"; non a caso, i nastri di "Più niente", registrato in orgoglioso analogico, sono passati dall’Hen House Studio per il missaggio a cura di Alberto Ferrari. Altri paragoni sono superflui, i Sula Ventrebianco sono ad oggi una band particolare e che al quarto album dimostra di avere ancora cose da dire e lo stile per farlo, forse meglio di quando all’urgenza espressiva si affiancava la spontaneità degli esordi. Potrebbero anche continuare a migliorare, nel dubbio o nell’attesa questo è un ottimo momento per conoscere il loro mondo e uno pessimo per abbandonarlo se già lo conoscete.
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La recensione Più niente di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-03-21 09:00:00
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