Una pillola ti fa più largo, un’altra ti fa più piccolo. E quelle che ti dà la mamma non fanno proprio nulla. Vai a chiederlo agli Encode quando sono alti dieci piedi. Citazione necessaria, con licenza poetica annessa. Sì, perché la versione di “White rabbit”, cult psichedelico dei Jefferson Airplane e contenuta nell’album di esordio degli Encode, è da sballo.
E non è la sola sorpresa di questo “Singing through the telescope”, disco necessario a chi avesse l’intenzione di immergersi - e speriamo siano in tanti - in atmosfere trasudanti psichedelia e allucinazioni collettive, condite da tocchi di post-rock, malinconia latente ed una voce, quella di Elena Ceci, assolutamente affascinante. Tanto per essere chiari sin dall’inizio, siamo di fronte ad un esordio sorprendente, ad un cd che non può non emozionare - a meno che non abbiate qualche etto di prosciutto inserito nelle orecchie.
Cos’hanno fatto gli Encode per meritarsi questa ‘scartavetrata’ di complimenti? Beh, in fondo, niente che sia davvero eccezionale. Ma, chissà, il loro segreto è proprio questo: con in testa la lezione di tanti cattivi maestri, a cominciare da un certo Syd Barrett fino a prendere ripetizioni dai Mogwai e dalla scena scozzese, i varesini hanno ibridato le loro fondamenta pop con atmosfere dilatate e notturne, rendendo la propria proposta interessante grazie ad un massiccio uso di pastiglie al sapore di peyote. I riferimenti a stati di alterazione vari non devono sorprendere, perché gli Encode mettono subito le cose in chiaro, buttando giù una crepuscolare “An addiction to the family” (che sembra scritta apposta per accompagnare l’iniziazione all’esperienza lisergica) proseguendo sulla stessa falsa riga con “On my kness” e “Vanished” (dalle istanze propriamente post-rock), a cui fa seguito l’incubo di “Daylight delight”, fino a ricordare il noise dei Sonic Youth (“Baretta” e, a tratti, “Before I wake”) e addirittura gli Smashing Pumpkins (quelli di “Adore”) in “Delight daylight”, non dimenticando l’uso discreto dell’elettronica (come in “Abatement”, dove i Portishead bussano prepotentemente alla porta). “Unsubstanzial love” è la fatica finale, ennesimo tentativo di arricchire di schizzi psichedelici un disco ispirato, nel quale sembra funzionare tutto, dove persino cantare attraverso un telescopio potrebbe diventare una possibilità eccitante.
Teniamoceli stretti gli Encode, ultimi ‘pusher’ di una musica che consumare in modica quantità equivarrebbe ad un reato.
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La recensione Singing through the telescope di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-04-23 00:00:00
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