Si è messo in gioco seriamente ed il risultato è un album scuro, violento e affascinante
“The Awareness Of Being Temporary” parte ricordandomi la prima di “Lp5” degli Autechre, per poi mescolarsi a qualcosa dei Mogwai, per poi impazzire nuovamente e finire con quello che sembra lo scricchiolio di una sedia. È notevole, una bomba, forse la migliore di “Usually Nowhere” anche se, certo, non è la più appariscente. Spiega come Yakamoto Kotzuga sia capace di picchiare duro, ma anche di cambiare registro con facilità, ma anche di saper giocare con un immaginario sporco, polveroso e ricco di campionamenti e poi accoppiarlo a quell'intelligenza artificiale fredda che mette a tacere ogni romanticismo.
“Such A Fragile Flower” è quella alla Jamie XX, e anche qui: inizia tra atmosfere notturne, poi diventa sexy, finisce menando sui denti. È un altro episodio notevole: si possono anche intravedere le varie fonti d'ispirazione ma, a traccia conclusa, rimane solo la sensazione di un intricato sistema studiato a dovere. Il terzo capolavoro è la title track: piccola perla hip hop che viaggia tra melodie scure disegnate benissimo e loop che si ripetono velocissimi.
Se prima la musica di Yakamoto Kotzuga era la versione naif e tenera di Weeknd, ora il ventunenne Giacomo Mazzucato ha provato a mettersi in gioco seriamente affrontando l'idea di una musica più di concetto – alla Oneohtrix Point Never, per intenderci - e meno di cuore. Il miglior esempio è “Night Rider”: ha un'architettura che, man mano, ti conduce a quegli ultimi 40 secondi, percussivi ma nemmeno violentissimi, che rimangono a mezz'aria ipnotici mentre sotto si muove qualcosa di impercettibile. Non è la migliore, ma possiamo considerarla un cambio di prospettiva interessante; e se questo cambio l'ha portato a scrivere quei tre pezzi bellissimi che vi ho raccontato prima, ben venga. E poi ci sono figate come i pianoforti tintinnanti alla Prefuse 73 (“Hermit”), le grosse distorsioni che si trasformano in aperture epiche come nel migliore Ben Frost o nei Lakker (“The Triumph”), c'è l'anima più acida di James Blake (“Permanence”). E molto altro ancora, non è un disco che riassumi citando 4 o 5 nomi.
11 pezzi che sembrano appartenere a 11 album diversi: è uno degli aspetti più pesanti da digerire, ma dopo un po' inizi ad assimilare alcune sfumature costanti. Ad esempio, il fatto che introduca sempre piccole parti che non sembrano mai andare a tempo, oppure l'amore per l'IDM anni '90 o il gusto nelle melodie distorte. C'è un sottile senso di coerenza tra i vari brani ma resta un disco che difficilmente riascolterai per intero. Ed un paio di traccie meno a fuoco ci sono (“I Was Dead”, “Cruel”) ma pazienza.
“Usually Nowhere” si posiziona a metà di tanti percorsi: non è ambient, non è hip hop, non è musica concettuale, tanto meno da ballare; nowhere appunto. Il risultato è personale, violento e affascinante insieme. Poteva fare un disco per ragazzine, oppure farne uno così. Sono contento che l'abbia fatto così.
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La recensione Usually Nowhere di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-03-23 00:00:00
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