Psych-pop, crudeli e selvaggi, gli I Hate My Village sono diventati il risultato di uno scontro frontale, dove blues e afrobeat vengono deflagrati da riff assurdi e melodie del disagio
Un supergruppo non è mai la somma esatta dei membri di cui fa parte. Un supergruppo che funziona non può essere quello che nel calcio è definito un instant team, perché altrimenti è pura masturbazione, mancanza di senso pratico dell'arte. Roba che interessa a pochi. Il super gruppo che funziona è quello che crea smottamento. Risulta strano usare questa definizione per il progetto I Hate My Village, nato ormai da più di cinque anni, alla sua quarta pubblicazione, tra dischi, Ep e raccolte di chicche incredibili.
Li abbiamo visti mettere insieme pezzi, ispirazioni acide e afrobeat, distorsioni al limite del bestiale, linee di basso sotterranee, li abbiamo sentiti in un passaggio live in un MI AMI pre-Covid, ma ora forse siamo in grado di sapere che alla base degli I Hate My Village c'è la collisione, lo scontro. Adriano Viterbini, Alberto Ferrari, Fabio Rondanini e Marco Fasolo hanno lavorato un suono attaccati agli strumenti, attaccati al groove prodotto, giocando a contrastarsi a vicenda, incassando colpi e contrattaccando.
Nevermind the Tempo è la quintessenza di questa collisione, e basterebbero i primi trenta secondi per capirlo. L'inizio di Artiminime, diciamo un capolavoro, registra una differenza di frequenze che pulsa come la carne viva, appena scorticata. Si tratta di un assaggio di psych-pop, perché nel suo delirio acido riesce comunque ad avvolgere, a far sentire al sicuro, e non è ben chiaro come sia possibile. Da una parte si sente l'apporto delle ultime ricerche fatte da Viterbini con i BSBE, dall'altra lo spazio vocale di Alberto Ferrari - tessitore di melodie del disagio - è cresciuto alla grande. La lotta tra queste due grosse novità ha fatto sgorgare questo suono limpido, rassicurante, una carezza sintetica.
In ognuno di questi undici frammenti di follia è presente almeno un momento di estasi sonora, lo Shampoo di Gaber sotto forma di cristalli multicolori, che penetrano nelle orecchie e stordiscono i sensi. Si passa dalla selva filtrata da autotune in Mauritania Twist, all'angoscia rumoristica di Erbaccia, in una caccia al tesoro che richiede di scovare, ovunque sia possibile, i ruggiti di un blues scomposto, e sempre rimodulato. Ci pensano poi brani come Jim o Water Tanks a riportare una parvenza di ordine, se di questo si può parlare.
Nevermind the Tempo è un monito, l'avvisaglia degli I Hate My Village, che se ne fregano forse dei tempi correnti, impacchettando un disco folle e disturbato. Se ne fregano anche del tempo inteso come ritmo, cambiato in continuazione, e custodito nelle bacchette d'oro di Fabio Rondanini. Con la voce incastonata nei suoni, persino in assenza di voce - Dun Dun è una marcia inquietante su cui ci si potrebbe aspettare da un momento all'altro l'arrivo di Tom Waits -, questi 35 minuti di autoscontri sono la conferma di un supergruppo che di "super" non vuole avere nulla. Anzi, si è scavato una fossa in cui nascondersi, a suonare a ripetizione riff assurdi, a coltivare scarti di psichedelia selvaggia.
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La recensione Nevermind the Tempo di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2024-05-17 01:14:00
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