Sensazione surreale quella di rimanere delusi dopo l'ascolto di un disco impeccabile. Letta questa frase, molti di voi penseranno che il sottoscritto ha venduto il cervello al mercato dell'usato, cosa alquanto probabile, ma che non cambia certo il senso del mio discorso. Forse é solo un problema di approccio: ero pronto ad un violento pogo mentale tra le mura della mia camera ed invece mi accorgo fin dalla prima nota che i Fluxus hanno dato alle stampe un disco che nulla ha a che vedere con la band che mi ha sfiancato con Pura Lana Vergine e Vita in un pacifico nuovo mondo.
Il muro sonoro, che tanto mi aveva emozionato in passato, é stato quasi del tutto abbattuto e le macerie sono state disperse in un lento fiume in cui scorrono solo minuscoli frammenti della potenza e del fragore di un tempo. La ritmica ha perso quella carica primordiale che faceva vibrare e contorcere la spina dorsale, immergendosi ora in un caldo liquido amniotico che addormenta e rallenta ogni movenza.
In quel paesaggio rumoroso dove prima si innalzavano mestose costruzioni inneggianti agli Helmet, ora si estende una cupa pianura su cui germogliano semi di un rock malato ma decisamente melodico, che per certi versi passa non troppo lontano dalle orme lasciate dagli Afterhours di Hai Paura del Buio e dai Ritmo Tribale di Psychorsonica, pur con una maggiore raffinatezza negli arrangiamenti.
Un cambiamento profondo e apparentemente molto sincero, ma che sfasa l'immagine che molti avevano dei Fluxus, che da imprescindibile punto di riferimento per una determinata scena, rischiano ora di diventare la migliore tra tutte le band "derivative".
Dopo questo noioso preambolo che ha fin troppi risvolti personali, forse é bene ammettere che il nuovo lavoro dei Fluxus non é poi così lontano dall'essere un piccolo capolavoro. Dodici brani densi e avvolgenti, che scivolano addosso senza procurare ferite, lasciando solo qualche piccola abrasione.
Le chitarre mantengono il gusto per la distorsione, ma le note vengono allungate e sospese in lunghe onde melodiche, che solo di rado si infrangono per lasciare spazio alla violenza di un tempo.
L'impeto vocale é stato accantonato a favore di un vero e proprio "canto", spesso molto tenue ma con impercettibili sfumature "ferrettiane".
Poggiandosi su arrangiamenti raffinati, l'intera trama si aggrappa alla carica emozionale di un afflato poetico che ispira buona parte dei testi, sempre rigorosamente in italiano.
L'intera architettura sonora si é poi arricchita raccogliendo piccole particelle provenienti da minuscoli intrecci elettronici, da pianoforti scordati, da archi lontani e dall'immancabile tromba di Roy Paci, personaggio dal suono impareggiabile, ma che per un non precisato motivo sembra essere diventato l'unico trombettista italiano in grado di fare l'ospite in un disco.
I Fluxus dell'anno duemiladue sono, quindi, una band totalmente rinnovata rispetto a quella che molti avevano apprezzato, sicuramente più accessibile e immediata, meno irruenta e molto più riflessiva. Difficile stabilire se i vecchi ammiratori riusciranno a entrare in sintonia con questo lavoro, io non ci sono riuscito per diversi motivi, ma é certo che stiamo parlando di un album che per molti potrebbe diventare veramente memorabile...
Ho finito...ora posso tornare ad ascoltare Pura Lana Vergine...
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-03-24 00:00:00
COMMENTI (1)
Per tutte le ragioni esposte nella recensione - sebbene lo apprezzi relativamente meno rispetto ai suoi predecessori - ho ammirato molto la svolta dei Fluxus. Il muro di suono si è disgregato, è vero, ma le canzoni hanno acquistato in particolari (penso per esempio al pianoforte scordato di "Rosso Scuro") e strumentazione. Non tutto funziona, qualcosa traballa, "Radiografie" e "Talidomide" sono bruttine, ma avercene oggi di gruppi così.