Alquanto strano notare che nella cartella stampa che accompagna le copie promozionali di questo esordio dei Roots Connection non si faccia alcun riferimento a Moby. Sì, perché il contenuto di questo cd ricalca il metodo di lavoro utilizzato proprio da Richard Melville Hall, ovvero il crossover di un genere come il blues con i beat dell’elettronica. Più precisamente la nota stampa riporta testualmente che il progetto intestato a Fabio Ferraboschi (ai più noto finora come fonico dell’Esagono recording studio), Fabrizio Tavernelli (già En Manque D’Autre e AFA) ed Enrico Micheletti (chitarrista blues con un curriculum che conta collaborazioni persino con John Lee Hooker) “(…)è un inusuale incontro tra blues, delta-music e ritmi elettronici. Una fusione tra i riverberi e le atmosfere della slide-guitar e le pulsazioni sintetiche del break-beat”.
Per carità, tutto verissimo, ma di fatto “Play” è nei negozi da 4 anni e sicuramente avrà scavato un solco tale che proprio il terzetto emiliano potrà goderne i frutti se qualche network radio-televisivo deciderà di diffondere il messaggio. Perché una volta concluso il discorso sulla paternità, occorre ammettere che le 12 tracce del dischetto sono materiale prezioso; innanzitutto perché poco hanno a che fare col paraculismo (a differenza di quanto abbia invece dimostrato proprio Moby con “18”), e poi perché si tratta i 3 con cui abbiamo a che fare sono musicisti di tutto rispetto.
D’altronde confrontarsi con classici del genere come “Hoochie coochie man”, “Crossroad blues”, “Travellin’ man” e altri ancora, per proporne una rilettura aggiornata con campionatori, samples e chincaglierie elettroniche di vario tipo, non è cosa da tutti. Ma, soprattutto, sorprende la piena riuscita del progetto, sia che si tratti di cover, sia che si abbia a che fare con inedite composizioni del terzetto (“Sad nation”, già efficace in questa versione, se remixata a dovere potrebbe spopolare ovunque!). Forse manca ancora qualche dettaglio compositivo nel momento in cui i Nostri propendono per le ballate, sembrando più vicini ad uno sbiadito Eric Clapton che a episodi splendidamente malinconici quali, ad esempio, “Why does my heart feel so bad?” piuttosto che “Porcelain”.
Come avrete capito, però, queste sono quisquiglie rispetto al contenuto complessivo di un disco che merita la massima attenzione e il cui acquisto è vivamente consigliato.
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-11-07 00:00:00
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