Sempre, o quasi, le intersezioni tra generi differenti mi lasciano perplesso in prima battuta, in particolar modo se sembrano studiate a tavolino. E sulle prime ammetto che l’idea di un’intersezione di elettronica con la tradizione occitana mi era sembrata cosa creata ad hoc per attirare l’attenzione del pubblico su di un’ennesima ricerca sonora fine a se stessa.
Eppure, sin dal primo ascolto l’ impressione si è rivelata decisamente sbagliata. Il doppio piano su cui si intrecciano elementi a prima vista totalmente discordanti - ossia una strumentazione rigorosamente tradizionale (ghironda, darabuka, cornamusa) che si fonde con suoni digitali, così come una rielaborazione di testi e musiche tradizionali (andando a ripescare fino al XII secolo!) che si amalgama alla perfezione con i brani originali - conferisce forza ed intuitività al disco. L’alternanza di diversi cantanti (voci sia femminili che maschili) da un’ulteriore tocco di varietà ad un disco che davvero riesce a stupire pressoché ad ogni traccia, senza mai indulgere in cliché di autocompiacimento, siano essi di genere elettronico o di genere popolare. Infatti l’ascoltatore si trova proiettato in un mondo a metà tra le feste popolari (“Onze passa dotze”) ed i dancefloor (“Sentiment embrolhat”), in cui i Gai Saber incrociano tessiture di strumenti tradizionali con campionamenti e loop, creando una sospensione sonora fluida di strutture armoniche e melodiche che a volte suonano come vagamente già sentite, facendo parte di un bagaglio tradizionale, che è all’interno di ognuno di noi, e che però stupiscono per il nuovo sfavillante vestito che i Gai Saber hanno saputo cucir loro addosso.
Il risultato è un eccellente quanto omogeneo meltin’ pot di modernità e tradizione, una tradizione in un linguaggio moderno delle parole della antica tradizione della lingua d’òc.
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La recensione Electro ch’òc di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-12-02 00:00:00
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