Dinnanzi ad una scala.
Primo gradino: il pensiero che ha seguito il mio passo iniziale è stato poco incoraggiante. Il primo riferimento che ho allacciato a ciò che dominava la mia attenzione uditiva, sono stati i Depeche Mode: paragone ingombrante e fastidioso.
Non è semplice rimpastare aggiungendo qualcosa ad un genere sviscerato e forse esaurito, soprattutto in un contesto temporale mutato, il rischio, quasi impossibile da scansare, è che chi ascolta facilmente recupererà una frase musicata ben nota “non si esce vivi dagli anni ‘80”.
Secondo gradino: scopro di salire, già dalle prime note. Un suono più personale e melodioso, caldo e avvolgente, nonostante principalmente elettronico; una voce potente, delicata come ciò che alla dolcezza cede e non mira.
Terzo gradino: la rotta è ormai evidente, imparo a conoscere quello che forse avevo giudicato affrettatamente. L’atmosfera è buia e i pochi squarci di luce, possenti; se dovessi cercare nuovamente un nome come appiglio, abbandonerei il precedente e mi affiderei ad altro, allo stesso modo fragoroso e ridondante: Robert Smith.
I Cure sono lontani, non potrebbe essere altrimenti, ma l’ambiente che gli Hype tentano di ricreare è saturo della stessa forza buia e decadente.
Quarto e ultimo gradino: la voglia di discostarsi da un suono “italiano” è già evidente nelle sonorità e la scelta di cantare in inglese mi lascia dubbiosa; anche senza la controprova, credo che l’uso di parole che si possono manipolare e maltrattare perché proprie, in questo caso, riempirebbe di significato ciò che ancora non ha trovato la sua ferma strada.
Esaurito il mio percorso osservo quello che è ormai alle mie spalle.
La semplicità forse. Intesa come essenzialità, come pulito incastro di pochi e conosciuti elementi. La semplicità forse…manca.
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La recensione Where eyes go blind di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2003-02-26 00:00:00
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