Un gran bel disco dove il contrasto tra una forma semplice, leggera e orecchiabile e contenuti importanti non infastidisce, anzi soddisfa. Complimenti.
“Tac-tac”, come nel Mago di Oz, Ila, assieme agli Happy Trees, con un battito di tacchi che diventa magia, ti può portare dove vuole lei. E tu sei lì che ti aggrappi fiducioso perché sai che ovunque ti porterà, andrà bene, perché ti mostrerà un punto di vista diverso sul mondo.
In un viaggio di 50 minuti, si attraversano influenze musicali diverse (dal pop-rock di matrice italiana, a rari sentori di folk internazionale, fino a cori etnici e ballate, senza dimenticare lievi raggi di elettronica), si oscilla tra inglese e italiano (e pure spagnolo), mantenendo sempre testi sensibili e precisi: tutto è al proprio posto, anche quando cambia. Il viaggio spettina i capelli, lasciandoli sempre in ordine.
“Antonio”, una delle migliori, è l’inno alla gioia di un qualunque vicino di casa ottantenne di un’ingenuità disarmante. Parla di un’esistenza sfortunata che in qualche modo ha il merito di far apprezzare la propria vita. E se è un po’ triste pensare di poter costruire la propria felicità sulla sfortuna degli altri, dall’altra parte è un modo per essere coscienti che al mondo non c’è solo la nostra vita più o meno tranquilla. Ancora una volta: il punto di vista si rovescia e allarga gli orizzonti. Perché “ci vuol poco per esser felice”, basta che “prendi la tua tristezza e buttala via. Poi prendi i giorni neri e lasciali andare. Che senso ha non amare ogni momento? Io lo so bene quanto è importante il tempo”. È così semplice. E si chiude, musicalmente, con un coro quasi etnico accanto alla ripetizione, triste e fondamentale, di “quanto è importante il tempo”. Il tema è pesante e ingombrante, la forma rimane tuttavia leggera e orecchiabile.
“L’uomo senza memoria” e “Dovessi andarmene” sono fatte di quel pop-rock orecchiabile, melodico e piacevole accompagnato da una voce dolce, leggera e cantautorale. La seconda, che musicalmente scivola verso la ballata, è l’ultimo pensiero prima della morte, senza paura e senza rimpianti, perché “mi basterebbe non sentire nessun dolore”. È il recupero dell’infanzia come rifugio, tiepido e confortevole. La prima, presente anche in versione inglese (“The man who”), parla di un “grande scienziato, un geniale inventore”, è il Dottor Who che prende vita e ti entra dentro con le sue Converse rosse, che va alla ricerca di se stesso nel tempo, che “aveva conosciuto gente, ma si sentiva solo”, “compagno del dolore, orfano di amicizia, vedovo dell’amore”. Tempo e identità, introdotti qui, sono forse i due temi più importanti e ricorrenti del disco.
E la propria identità si trova solo immedesimandosi negli altri, è questo il cambio di punto di vista di cui parlavo sopra.
È così che “Hai mai pensato” sta dalla parte di chi non la pensa come gli altri e glielo dice in faccia. È dedicata a tutti quelli che credono di essere al centro dell’universo con l’intento di fargli capire di non essere niente più di una goccia nel mare, ché "chi pensa a sé campa cent’anni", diceva mia nonna, e gli anziani ne sanno! E sta tutta in queste domande: “Hai mai pensato che siamo diversi? E che nessuno ha più ragione degli altri? E che comunque la tua verità vale come quella di tutti? Hai mai pensato che posso sbagliare? E magari cambiare opinione? E che comunque tu puoi fare lo stesso? Ognuno ha il suo percorso da fare. Hai mai pensato che se faccio quel che faccio è perché ne ho bisogno? Hai mai pensato che se vivo come vivo non è per fare un torto a te? Hai mai pensato che il mondo esiste anche senza il tuo giudizio? Hai mai pensato che se vivo come vivo non è per fare un torto a te? Hai mai pensato che c’è posto per te e anche per me?”.
La seconda parte del disco, per quanto sia difficile, riesce a tener testa alla prima e a tenere alta l’attenzione: “I will wait” è l’attesa che la pioggia finisca per riavvicinarsi, è la consapevolezza di sprecare il tempo stando lontani, il ritmo è lento e intenso, ti entra dentro come gocce di pioggia più simili a chiodi, ma alla fine “everything will be alright”; “Non sono il tuo nemico” scorre al ritmo dell’ukulele di Lorenzo Fugazza, è un invito ad ammettere i propri sbagli e spogliarsi di tutte le “parole messe su come armature”; “Diverso” è la mancanza di una risposta certa sul proprio futuro, perché “a volte le risposte son meno delle domande”, è il conflitto tra testa e cuore, ma il punto di vista alla fine è ottimista, “c’è un certo senso nella bellezza delle cose, nella semplicità anche di quelle noiose”; “Lasciala andare”, con Israel Varela, è un invito diretto alla vita che è “come un fiume che scorre e non la puoi fermare” e bisogna imparare ad accettarla.
“Le scarpe rosse”, insomma, è un gran bel disco. Musicalmente leggero e orecchiabile, ma che nasconde dietro quella forma semplice e diretta, temi impegnati e fondamentali: tempo, identità, rovesciamento dei punti di vista. E in ogni caso, tutto sembra al suo posto. Il disordine e il contrasto non si percepiscono. È un gran bel merito riuscire a fare un disco accessibile e comunque fortemente impegnato. Complimenti.
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La recensione Le scarpe rosse di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-11-20 09:40:00
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