Una bella fotografia di un paesaggio freddo e brullo, una piana autunnale immobile contemplata dal candido calore di un cappuccio, una melanconia quieta e piacevole. Calmo, rilassato, post nel dna, nel cuore, diafano, a tratti scarno, cristallino, musica a maglie larghe, che lascia spazio, che fa passare.
Chitarra - soprattutto - dal procedere delicato che si concede solo raramente a cuspidi di intensità GYBE!iane (passatemi la brutta espressione). Batteria, a tratti quasi pudica nel suo lavoro, poi voce, a volte, e bella. Qualche altro elemento, episodico, in punta di piedi, la grazia di un soffice abbraccio. Piccoli particolari che si notano solo con l’attenzione, un afflato melodico mai eccessivo.
Tanto da dire, troppo forse, su questo disco. Chiariamo subito il nocciolo del discorso: se siete appassionati di post-rock, magari nelle sue forme meticciate con lo slow-core e con un’ombra di folk d’autore, questo è un lp da avere.
E non da avere come - chessò - l’ultimo gruppo americano dal nome chilometrico di cui si è letto (e c’è da farne collezioni anche solo limitandosi al post… pensiamo solo a Godspeed You Black Emperor!, The Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-la-la Band With Choir, Meanwhile Back In Communist Russia…!), o anche qualche forse sin troppo blasonata realtà nostrana persasi strada facendo. No, questo disco è da avere senza la solita fame rapace di novità, senza questa superflua ansia da prestazione con cui ci si rapporta alla conoscenza di determinate realtà sotterranee. Questo disco non è il primo degli Strokes, non ne sentirete parlare sino alla nausea. Questo disco sarà vostro, uno dei tanti forse, ma di quelli ‘buoni’, quei dischi su cui sai di poter contare, quei dischi che rispuntano fuori in determinate giornate, in precisi momenti.
Gli Ultra Violet Makes Me Sick, insomma, meritano. “No freeway, no plan, no trees, no ghosts” si presenta con buon gusto, racchiuso - ebbene sì - nei canoni dell’atteso, negli stilemi del genere, ma con quel qualcosa che distingue un buon lavoro post-rock da uno banale e non ispirato. Dalla voce di Andrea Ferraris degli One By One We’re Becoming Shades (si diceva prima dei nomi, vero?) e dai rinnovati orizzonti musicali, il sound del gruppo di Pavia ha tratto nuova linfa vitale, confezionando un opera sognante, rilassata. In una sola parola: bella.
Critiche ce ne son state, per carità: c’è chi li ha tacciati di supina adesione al genere, chi di eccessive concessioni alla melodia, ma tutto questo non può che passare in secondo piano di fronte ai molteplici meriti di un disco che, concessagli la possibilità di un ascolto attento, riesce a conquistare in breve tempo.
Chi all’estero ha deciso di distribuirli (Camera Obscura) ha fatto la mossa giusta. Chi in Italia deciderà di ascoltarli, anche. Ed ora, scusate, ma vado ad alzare il volume e mi appollaio con una tazza di the sul divano. Puro piacere.
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La recensione No freeway, no plan, no trees, no ghosts di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-03-19 00:00:00
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