Un concept estremo sulle implicazioni universali dell’amore. Una sorta di romanzata cosmogonia tascabile a trazione elettronica.
C’è tanta, legittima, ambizione in questo rinnovato sodalizio artistico tra Friedrich Cané e Giacomo Marighelli (già insieme nel Vuoto Pneumatico), a partire dal titolo stesso della loro prima creatura ufficiale e dalla simbologia grafica del booklet che l’accompagna. “Del movimento dei cieli” dispensa, infatti, una successione articolata di 14 composizioni, ognuna concettualmente concatenata all’altra, calate all’interno di un più generale disegno narrativo, a trazione elettronica, che sviscera le implicazioni universali di una storia d’amore dai contorni indefiniti, in una sorta di continua alternanza tra micro e macro prospettive e correlazioni filosofiche, scientifiche, astronomiche, religiose, astrologiche e persino esoteriche, in virtù di quei Tarocchi più volte tirati in ballo come collante interpretativo.
Siamo al cospetto di un concept estremo, e a suo modo integralista, concepito in mezzo alla natura e che dentro la natura stessa vuole, in un certo senso, esaurirsi, attraverso la sonorizzazione di un coacervo di tematiche vetuste, sì, ma pur sempre affascinanti e attuali, quali quelle del “nulla si crea e nulla si distrugge”, della “mutevolezza eraclitea di tutte le cose”, della “imperscrutabilità del destino”, della “labilità di confine tra sogno e realtà”, della “ineluttabilità del dolore” e dell’”amore come fonte d’immortalità”. Un approccio, alla fine, per nulla lontano dalla teatralità visionaria che fu dei Beau Geste un trentennio addietro - costantemente in bilico tra tradizione e sperimentazione - e che via via si arricchisce di funzionali e autorevoli influenze, come i CSI transistorizzati de “Il motore immobile” ed “Elementi in divenire”, la new wave cantautoriale di Faust’O in “Azimuth” e “Ardesia”, le declamazioni godaniane in salsa electro dark di “Idrodinamica” e “Fotosintesi” o gli umori arcani di certo neofolk ataraxiano (“Le infinite forme”), fino alla degna chiusura simil-dantesca di “Zenith” dove il tutto si ricompone estaticamente nell’unità suprema e lucente dell’amore universale.
Per quanto visibilmente penalizzata da una monoliticità comunicativa piuttosto marcata “Del movimento dei cieli” rimane comunque, per chi l’ascolta, un’opera ostica eppure intrigante per quel suo ponderato equilibrio orchestrale tra trip-hop, dark ambientale ed ermetismo cantautorale di derivazione letteraria. Per chi l’ha scritta, forse, qualcosa di più: un sofferto percorso esistenziale verso il raggiungimento della consapevolezza di sé attraverso l’illuminazione salvifica della musica.
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La recensione Del movimento dei cieli di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-12-14 09:45:00
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