La globalizzazione avanza ed erode lo spazio(temporale) che ci separa dal giorno in cui sarà carnevale tutto l’anno e la settimana sarà composta da sei martedì (tutti ‘grassi’) e una domenica per il riposo. A quel punto non farà più caso chi va a lavoro vestito da zorro o l’impiegato di banca con l’orecchino divaricatore, e ci saranno cacciatori di cinghiale vestiti da pescatori piuttosto che infermieri con il completo ufficiale della Sampdoria. Il potere comunicativo che gli abiti hanno accumulato per il loro essersi affermati a livello storico e culturale decadrà in nome di una miriade di singolari libere scelte d’identità e dovranno essere assunti criteri diversi di stratificazione sociale.
Gli appassionati del Messico saranno dunque i ‘filomessicani’ e tra questi ci sarà chi si vestirà come nella pubblicità dell’Estathé (con tanto di sombrero e spagnolo improbabile) e chi imbraccerà chitarra e percussioni nell’idea meno avvilente di interpretare un certo sentimento di messicanità.
Il succo del discorso della seconda corrente è nei sei pezzi dell’onesto - e a tratti sorprendente - debutto di questi No Hay Banda Trio, dove si alternano tre piccole gemme tradizionali (che guardano un po’ a tutta la tradizione acustica latina), riarrangiate ma fedeli quanto a spirito alle rispettive copie originali, ad altrettante piccole gemme la cui responsabilità è questa volta del gruppo stesso. “Tango negro” di Càceres apre le danze e cede il passo ad una “Occhi blu” che farebbe parecchio comodo alla Bandabardò; poi la passionevole “La soledad” di Pink Martini e “Memoria stoica”, divertente ballata dai ritmi similcubani; tocca infine a “El feo” di Demetrio Lopez che lascia la chiusura all’accattivantissima “L’inclinazione” ed a un’impressione generale che gli artigiani abbiano ben imparato il mestiere dalla bottega.
Magari chi conosce le versioni originali, e cerca il peso che cala con forza sugli accenti spostati della musica latina, potrebbe rimanere poco sensibile a quanto viene proposto; ma credo che per chiunque - con un minimo di immaginazione - non sia difficile leggere l’ironia sottesa alle scelte musicali e all’interpretazione. A cominciare dal nome, per poi considerare i testi, leggeri ma mai banali, in cui la necessaria ironia latente approda fino a frasi addirittura geniali (“...nella mano un bicchiere di torpore corretto gin...”, oppure la frase in napoletano aggiunta al testo di “El feo”, inclusa come spiritoso elemento di disturbo), il tutto veicolato da una voce giustamente espressiva e mai eccessiva, prodigata in melodie orecchiabili quanto basta.
Insomma, il giochino gli riesce bene riuscendo nel contempo a rendere l’idea di una musica il cui fattore di complessità aumenta tanto più si riesce a farla sembrare semplice (cosa che, ovviamente non è). E tanto basta, pur con la curiosità di sapere se e come tutto ciò verrebbe ripartito in una prova di più lunga distanza rispetto ad un mini di sei pezzi (che come detto ne conta solamente tre originali). Ma, visti i risultati, si legga ciò come un invito piuttosto che una ‘sfida’.
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La recensione ep di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-07-17 00:00:00
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