Il synthpop di Marabou ha il fascino enigmatico del volatile da cui prende il nome
Alla fine dell'arcobaleno secondo Giovanni Alessandro Spina non ci sarà forse una pentola di monete d'oro, ma comunque se ci facciamo accompagnare da lui troveremo qualcosa di fiabesco. Un paesaggio etereo, “like a childhood paradise”, un luogo immaginifico disegnato da un elettropop sognante e raffinato. Come il nome d'arte che si è scelto: Marabù si chiama un uccello dalla grande apertura alare e dall'apparenza “meditativa” - così dicono i dizionari – e marabù si chiama il suo piumaggio leggero e vaporoso, usato anche per decorare abiti femminili.
I pezzi di quest'album si librano così, leggeri e decorativi, nel senso più positivo, meditativi anche, impalpabili come piume ma palpitanti di vita. La voce, melodica anche quando è quasi inestricabile dalle fluide trame strumentali, confida piccole riflessioni intimiste, immersa in quello che è davvero un arcobaleno sonoro ed emotivo: uno sprigionarsi, da una goccia sospesa di malinconia, di colori e ritmi delicati e ben distinti seppur sfumati uno nell'altro. “So true, so sunny, so easy, so funny”, “looking for something into the blue”: easy listening, se vogliamo possiamo chiamarla anche così, ma con un cuore oscuro, inquieto, cinematico e synth-psichedelico che batte nemmeno troppo nascosto (ascoltate "Love Story" o "Laboon") per allontanare lo spettro del "carino".
E no, se ve lo state chiedendo, l'assonanza onomastica con Caribou decisamente non sembra casuale.
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La recensione The end of the rainbow di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-10-17 10:00:00
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