Roma è probabilmente una città dove l'amore per il pop a tinte chiare bene si fonde ad una soffusa vena indie. Lo avevamo già capito con i Carpacho, i Micecars avevano poi sottolineato il concetto ed infine, tanto per rinvigorire l'assioma e dimostrare la tesi, lo confermano questi Turnpike Glow. Diversi dalle due band precedentemente citate per aver scelto, al posto di un amore grande in forme diverse per i Pixies (non senza dimenticarli), territori più vicini agli Yo La Tengo! ed ai Blonde Redhead, il quartetto mostra il petto con audacia e bravura, sebbene al posto di un manto villoso spunti - per ora - solo qualche sparuto pelo.
I Turnpike Glow soffrono infatti - ancora - della sindrome da citazione: si ispirano ora ad un modello ed altre si avvicinano ad un altro. Quando la forza delle loro canzoni regge, anche i modelli vanno a farsi fottere lasciando solo un senso di appagamento totale ("Dirty Rain", "Dancing Can"); quando invece il peso degli arrangiamenti piomba su una struttura non ancora pienamente compiuta, l'impressione è ancora quella della acerbità ("Chopin"). Va però detto che Sandro e compagni hanno una bravura superiore alla media nello scrivere canzoni, e gliene va dato atto soprattutto negli episodi meno inconcludenti, quando al posto di un trafelato plin plin ("Forecasts" e "Falling at the Whistle"), tentano soluzioni originali e personali senza cadere nella scontatezza ("Selten", ovvero il punto di incontro quasi perfetto fra Adriano Celentano e i Flaming Lips). Dimostrazione ne sia "Mainstream", episodio multiforme che racchiude in sè arpeggi e contrappunti di radiosa bellezza, ma che poi si perde e si contorce su se stesso senza mai trovare la soluzione.
Soffici e graziosi come la voce del loro cantante, i Turnpike Glow hanno tutte le potenzialità per costruirsi un futuro decisamente glorioso davanti a loro. Succederà quando decideranno di non enfatizzare il mal di schiena e incominceranno a tenere in mano il plettro con più decisione. Credo poi che lo capiremo quando sulla copertina dei loro dischi, al posto di caselli di highroads americane con tir rovesciati e biascichi, avremo un particolare del raccordo anulare intasato. Con bloccata nel mezzo una Mini verde mezza scassata, guidata da un barbuto indie rocker italiano che veste una maglia dei Pavement, e urla allo stronzo davanti: "li mortacci tua, 'nfame!".
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La recensione Rush home di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-05-15 00:00:00
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