Inventare un suono totalmente dal basso è un immagine immensamente profonda, più che affascinante. Ma molto spesso diventa un’insana attenuante, una scusa per insabbiare pilastri di ignoranza ed incapacità, sottraendo apparentemente alla vista le difficoltà di porsi alla folla massiccia di uditori esperti o anche impreparati digiuni. Non è proprio il caso dei Giudabasso, che combinano la lealtà e la semplicità per la musica con esiti eccellenti e apprezzabili, come se volessero trascinare dal-basso-verso e non delimitarsi al-basso.
Il sound è reggae e ska, due aree attigue e indubitabilmente comunicanti. Lievi dubbiosità sui contenuti. A volte le idee e gli approcci reali alla musica sprofondano in banali rifugi e inadeguatezze. Come se comunicare in un certo modo, usare certi termini e restringersi volutamente ad una racchiusa cerchia di destinatari, sia l’unico metodo per sentirsi artisti valenti. Falso.
Papa Andy e soci si spacciano per una band con un tocco di international, partendo da Milano, cantando in diverse lingue. Difficile farlo. Dal sempre limitante italiano, all’inglese, francese e con prese di dialetti dissimili ma parecchio interpretativi e influenti. Si dice dell’incontro dei suoni nel Mediterraneo, ma anche di fughe dalla polizia, fino a riprendere temi come il rispetto, la libertà e le scomodità sociali. Con tutto il rischio di ridurre le note, i ritmi, i suoni alla monotonia delle solite parole. Rischio assunto. Non è unicamente il caso dei Giudabasso, ma anche.
“Terra Libera” è dedicata ad una distante mamma Africa, quasi a voler ricreare quell’habitat arido, povero, ma anche florido e incorrotto delle radici e dell’ indole africana, nell’attuale e disastrata società a ovest. E per i sei minuti circa della canzone, magari aiutati da buona ganja, il viaggio in Africa ci sta tutto. Gli strumenti usati, l’ambiente ricreato, e persino i versi delle scimmie in sottofondo riconducono alla madre assoluta di tutti quei suoni che nascono dalla povertà effusa, dall’ istinto umano alla musica e da incontrastabili sconvolgimenti sociali. Non è il caso, però, di dimenticare che si vive da tutt’altra parte.
I sette ragazzi milanesi suonano, realizzano bene e, superando le inappuntabili critiche ai contenuti,non mancano di flow. Funzionano nonostante le sunnominate parole logore. Decisi ma poco intensi. Profondi e accurati invece, nei ritmi e nelle alternanze di beat, lenti o spediti, tendenti al rocksteady antico o allo ska più combattivo. Non è il caso di penalizzare solo per i contenuti usuali, una pecca che convive con dettagli amalgamati non male. Senz’altro saran bravi dal vivo, intingendo non solamente un occhio all’ estero. Quindi international.
Il disco si chiude alla nove, poi ci sono tre versioni riviste, due entrano molto abilmente in meditazione dub e l’ultima riedita “No Hay Tempo” in uno sfuggente electrorumba style. Il sound opera sufficiente, l’attitudine dal basso c’è, ma il concept è degno di triste nota.
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La recensione Giudabasso di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-01-19 00:00:00
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