“Love in a Dying World” è un percorso malinconico e struggente da compiere da soli nel deserto, alla ricerca di risposte e di se stessi.
Ho preparato lo zaino e ci ho messo dentro l’essenziale prima di partire per la California, con l’idea fissa di camminare nel deserto del Mojave e non fermarmi finché non sopraggiunga la stanchezza. Ho chiuso gli occhi e ci sono arrivata davvero, nel deserto del Mojave, ascoltando “Love in a dying world” di Nero Kane: un disco dai suoni malinconici, che vibrano come una voce nel deserto, un suono che si espande nel vuoto e contemporaneamente lo riempie e lo amplifica. “Black Crows”, prima traccia del disco, e “Desert Soul”, la successiva, definiscono subito la direzione dello sguardo: quel rock psichedelico d’oltreoceano anni ’60-primi seventies, quei momenti in cui l’essenzialità di voce e musica è dominante; “Desert Soul” è ossessiva e malinconica, è puro senso di abbandono, solitudine e smarrimento, come un’anima deserta in un mondo deserto. Così le parole sono un’eco e la musica uno sfondo dai colori ombrosi e tenui.
Nel deserto ho guardato le dune sabbiose del deserto stendersi davanti ai miei occhi, mentre un passo dopo l’altro lasciavo impronte che non avrei rivisto. È un po’ come la vita, ché bisogna guardare sempre avanti e non fermarsi mai. Così “Living on the edge of the night” sembra la colonna sonora perfetta di queste riflessioni, si arricchisce di archi e la melodia malinconica entra dentro e scava ancor più a fondo nel torace.
La malinconia, la ricerca di se stessi, di una ragione di vita, dell’amore, sembrano essere le colonne portanti del disco. E la cosa più struggente è che quella ricerca avviene in completa solitudine, in un mondo che sembra morto, dove non c’è nessun altro al di fuori di noi.
I suoni, essenziali e malinconici, fatti perlopiù di lente note di chitarra e poco altro, sono accompagnati dalla voce, anch’essa malinconica e vibrante, che sembra un’eco tra le dune del deserto, che amplifica la sensazione di essere soli in una landa desolata con i propri incubi, con le proprie paure, con le cose che mancano e che continuiamo a cercare. E così “Because I knew when my life was good” nel suo incedere ossessivo lascia dentro un senso di angoscia, “Dream dream” apre ai sogni, mentre “So Sad” è una notte che non passa mai, schiacciati dai pensieri, che fanno troppo rumore e pesano come macigni e non si riescono a spostare. L’omonima e conclusiva “Love in a Dying World” è struggente nel suo essere strumentale, dove le note vibrano per quasi 5 minuti, nel corpo e nello spazio.
“Love in a Dying World” è quindi un disco che respira aria d’oltreoceano, che pone domande e stimola pensieri, è un percorso di ricerca e riflessione da compiere da soli nel deserto, alla ricerca di risposte e di se stessi. È un percorso che prima o poi si deve intraprendere.
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La recensione Love In A Dying World di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-04-26 11:00:36
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