Stead Ucow 2018 - Lo-Fi, Indie, Folk

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Colori tenui e capacità di suscitare sensazioni e generare immagini, far viaggiare la mente lontano: “Ucow” è cura dei dettagli, folk anglosassone, malinconia e sfumature. Un ottimo lavoro.

La musica ha quella capacità magica e quasi incomprensibile di suscitare sentimenti e sensazioni, generare immagini e far viaggiare la mente lontana dai luoghi reali in cui si trova il corpo. “Ucow” è l’ultimo lavoro del progetto Stead, la cui anima è quella di Stefano Antoci D’Agostino, polistrumentista e cantautore trapiantato a Londra ormai da tempo. “Ucow” è un disco che fa della cura il suo punto di forza, dell’attenzione ai dettagli la sua essenza: le fasi di registrazione negli storici Abbey Road Studios, oltre che la partecipazione attiva alla produzione e ai suoni di Giuliano Dottori, in questo senso, non sono casuali.

La tradizione musicale anglosassone che fa del folk il suo cuore battente e della chitarra acustica il suo filo conduttore è pienamente presente, ma mai eccessiva. Nonostante si possano scomodare paragoni ingombranti (da Damien Rice a Jeff Buckley, passando per Bob Dylan), Stefano D’Agostino trova uno stile personale, lasciandosi ispirare. Lo fa con grande cognizione di causa e indubbia capacità.

Le melodie di tutto il disco oscillano tra momenti di malinconia e altri più intensi e movimentati, rimanendo sempre in perfetto equilibrio: così se “H.E. (Useless Chase)” era lenta e malinconica, la successiva “God Save Me” e, sulla stessa scia, “At the Graveyard”, urlano e gridano quasi disperatamente, mentre “Mirrors” è pura malinconia, è lo sguardo nello specchio e la poesia che si cela nei riflessi.
“Pledge”, “At the Water’s Edge” e “Riverlike” sono i brani centrali (e anche tra i migliori) del disco: la prima si arricchisce di un sottofondo elettronico e di sintetizzatori; la seconda è un paesaggio naturale che si stende davanti agli occhi, sono le passeggiate lungo un torrente, lo stendersi a riva lasciandosi trasportare dai pensieri, con gli occhi chiusi o fissi sulle forme in costante mutamento delle nuvole. Qui la musica parla direttamente all’anima, la avvolge e la trascina in altri luoghi, per quasi 7 minuti di brano che non annoia mai. La terza è dominata dalla chitarra, un sottofondo che scorre costante come l’acqua del fiume che sfocia nel mare, il piccolo che si fa grande, l’individuale che diventa universale.
“Music Man”, infine, chiude il disco e il percorso di “Ucow” senza paura di raggiungere i 9 minuti. È un caldo abbraccio che avvolge e colma il vuoto, prima di andar via e lasciare spazio al silenzio, con la mente che continua a girare.

È un lavoro in cui non c’è spazio per netti contrasti e in cui tutto sembra sfumato, come il cielo al tramonto, ché se si guarda solo l’ovest e poi l’est sembra di guardare due opposti, ma è in mezzo che ci sono tutte le sfumature. Da ascoltare e riascoltare.

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La recensione Ucow di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-03-15 15:59:00

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