Folktronic Opera s/t 2005 - Cantautoriale, Elettronica

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Folktronic Opera. “Opera” è parola dai tanti significati. Quello fondamentale per comprendere il senso di questo lavoro del duo di Vigonza è “opera alchemica”. Perché Davide Truffo e Alberto Mancinelli si pongono l’ambizioso obbiettivo di trasmutare l’italica canzone d’autore più classica, tramite l’uso massiccio dell’elettronica. Bel progetto. Adeguare ai tempi quella che è una delle tradizioni italiane. Certo, “folktronic” non è un invenzione marca Truffo/Mancinelli: il termine su google dà 6450 risultati, e “folktronica” 24.800. Tanto per fare due cifre.

Il cd è registrato dal vivo all’inaugurazione di una mostra: non so immaginare ambientazione più consona ai Folktronic opera. A chiudere gli occhi, posso immaginare mostra e il pubblico “perfetti”: una serie di installazioni di detriti industriali, collage fotografici e video, macerie post-industriali che tentano di comporre un discorso nuovo. Il pubblico: ci posso vedere Federico Fiumani che chiacchiera con Ivan Della Mea, Simon & Garfunkel che borbottano qualcosa a Emidio Clementi, mentre, fuori dalla mostra, è un po’ bizzarro vedere gli Ultramarine che, abbandonate le tradizioni celtiche, sfilano vestiti da cafoni molisani in una consapevole citazione post-moderna de “Il Quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Quando Alberto Mancinelli canta “fanno tutti un po’ rumore” (in “Mutazione”) si capisce che sta salutando Manuel Agnelli, appena entrato, con una strizzatina d’occhio. Manuel ricambia regalando ai Folktronic Opera una vecchia cassetta di “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla: c’è bisogno di chiedere un walkman a De Andrè, che dall’aldilà materializza modernariato e tecnologia retrò. I due, un auricolare a testa, ascoltano “Barcarola”, e capiscono che la loro “Il gesto” è la figlia, riconosciuta o no, di quella vecchia traccia numero quattro fine lato A.

Inutile continuare l’elenco dei presenti, ché nascosti nelle pieghe testi spuntano mille altre tessere di mosaico fanciullescamente rubate a questo o quell’altro autore italiano. In fondo è proprio questo uno dei sensi del progetto dei Folktronic opera: comporre un mosaico fatto di piccoli pezzi di un passato che, in quanto passato, fu. E sei “ei fu”, ci si presenta come un mucchio di rovine da cui rubare per, postmodernamente, costruire. O il senso dei Folktronic Opera potrebbe essere Bernardo di Chartres che dice a Noel Gallagher “siamo nani sulle spalle di giganti, ma per questo possiamo [provare] a vedere un po’ più lontano.” O il senso degli F.O. potrebbe essere umiltà e smarrimento esistenziale, vite distratte perdute nella contemplazione di gesti marginali che assumono evidenza di icone, che sembrano rivelare e rimandare a un trascendente che non arriva mai. O, infine, musica che circola negli spazi standosene timidamente in disparte, per paura di non sostenere il centro della scena.

Adesso crederete che questa recensione stia gridando al miracolo. No. Tutt’altro. Perché questi sono gli intenti dei F.O., almeno come ho creduto di capirli io, il loro perché. Il mio giudizio si ferma a un interessante esperimento, anche gradevole, ma fondamentalmente in grado di resistere, coerentemente con quanto ho detto sopra, sulla breve e perfetta distanza di quattro canzoni. Di più sarebbe noia mortale. Direi che c’è materiale su cui costruire. Ma che siamo all’inizio del viaggio.

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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-06-13 00:00:00

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