Un uragano di inesorabile potenza sonora per l'esordio dei Sons of Lazareth con il desertico e roccioso "Blue Skies back to Gray"
Di “Blue Skies back to Gray”, debut album dei Sons of Lazareth, si apprezza immediatamente l’ospitalità. Prima di cominciare a spezzare le ossa con il loro suono massiccio scaraventato fuori da muri di distorsioni e da una ritmica schiacciasassi, i quattro bolognesi danno infatti la possibilità all’ascoltatore di entrare nel loro mondo gradualmente, in crescendo, attraverso l’accattivante “Palm Desert’s Blues”, a cui tra l’altro è affidato il compito di metter subito le cose in chiaro su quello che ci aspetta: un viaggio negli scenari più desertici che l’oscurità del blues possa offrire, in cui le alte e rigogliose palme che si stagliano contro un cielo in burrasca saranno l’unico punto di riferimento per muoversi nel buio incombente.
Questa traccia strumentale che inaugura l’album è dunque una forma di “quiete prima della tempesta”, quasi un vapore tossico che si solleva dalle acque avvelenate di una terra in rovina, per poi condensarsi nel cielo con la successiva “Escape to Nowhere”, nella quale questo gas contaminato comincia ad assumere la forma di nuvole nere e minacciose che presto si abbatteranno sul nostro pianeta.
“Escape to Nowhere” è anche la composizione più originale del combo, grazie alla fusione tra influenze stoner e un’irrequieta voglia di esprimersi in maniera più personale, a cominciare dalle architetture dell’ugola corrosiva di Alessandro D’Amato – che trionfa anche nei momenti growl – fino al dialogo schizoide tra la chitarra e i disturbi di una radio non sintonizzata, per poi ricominciare con la musica cambiando nuovamente umore.
La sperimentazione di soluzioni inconsuete non si esaurirà con questa sola traccia ma a dire il vero non riserverà molte sorprese nei brani successivi, restando bene o male sempre limitata ai cambi di ritmo o ad un lavoro certosino sulla dinamica dei pezzi, che permettono comunque ai SOL di mantenere sempre alta l’attenzione.
Più che per originalità, questo primo lavoro della band emiliana si fa apprezzare per la consapevole fedeltà agli insegnamenti derivati dai più grandi nomi del desert rock, dello stoner e del grunge (dai Kyuss ai Queens Of The Stone Age, dai Creed ai Soundgarden, dai Fu Manchu ai Sentenced) che i nostri riescono a rielaborare anche attraverso ricorrenti sfumature metal e hard rock, rendendo questo uragano d’inesorabile potenza sonora tanto devastante quanto liberatorio.
Un ottimo esordio per una band che dimostra già talento, buon gusto e un’energia esplosiva.
---
La recensione Blue Skies back to Gray di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-05-02 15:21:23
COMMENTI