Ci sono tre pezzi - fra gli otto del nuovo lavoro del tosco-partenopeo Marco Parente - che sorreggono l'intera trama sonora e testuale. Nel senso che ti danno la cifra di "Neve (ridens)", primo capitolo di un duetto che dovrebbe concludersi nel prossimo febbraio con un secondo (solo cronologicamente) album omonimo. Ti forniscono la chiave per capirlo, interpretarlo, criticarlo. Perché mica è facile capire Marco (e per fortuna: ogni tanto serve qualcuno si fa difficile da sezionare). Sono "Il posto delle fragole", "Un tempio" e "Trilogia del sorriso animale III".
La prima canzone è manifesto di un approccio essenzialmente più facile che in passato. Come se Parente ti dicesse: "Ehi, inizia con questa: è un bel vaccino per la mia musica". E' scorrevole ma anche impertinente. E' la più inquadrata musicalmente parlando. E' veloce. Bastarda e seducente, con quell'attacco così soft - ritmica essenziale, piano alternato, chitarrina luciferina - da farti venir voglia di tirar fuori la tua giacca di velluto a costine e metterti comodo, a filosofeggiare. Anche se poi la deriva che prende fa molto Paolo Benvegnù.
L'altra, "Un tempio", recupera la dimensione più intimista e febbricitante del poeta-musicante: la vena poetica, l'inequivocabile marchio di fabbrica. Ce ne sono altre: ma questa è la ballad più essenziale e vibrante del disco.
L'ultima, che chiude il lavoro e che è appunto una suite divisa in tre parti, mette in campo una certa attitudine virtuosa, strisciante e orchestrale. Pur, a ben ascoltare, rimarcando fino alla fine quella che è l'essenzialità - a tratti un pò scarna ma sempre raffinata, attenta, maliziosa - dell'impasto che costruisce col suo quintetto.
In mezzo a queste pregiate stampelle sonore, saltano fuori altri momenti delicatissimi. "Amore o governo", da cui esce l'ansia civile ed umana di un realtà che non riesce a risolvere e curare le sue piaghe ("Ma intanto la terra si scioglie/si scalda/si è sciolta"). E l'andatura sincopata si fa davvero incalzante e quasi mefistofelica. Nel suo malinconico disincanto.
O la scanzonata e schizzata "Lampi sul petto", più ristretta al sé. Un sé che si spezzetta e si prepara al confronto con i "demoni con le ossa" (la stessa gente di "Colpo di specchio", lamento di un'identità multipla) di "Io aeroporto". Scheletrica all'inizio, quest'ultima, quanto intensa e rockeggiante fino alle lacrime nella seconda metà. Potente.
Il disco è perfetto. Tanti colori taglienti, tanti approcci, tutti perfettamente confezionati. Diretto e compatto come un manoscritto su carta ormai ingiallita che non ha però perso il suo spessore compositivo. Dentro, c'è un cantautore a cui piace assemblare pezzi di musica quasi in un flusso di coscienza che - a primo impatto ermetico o quantomeno introverso - si rivela poi alla fine essere quanto più genuino ed elementare si possa immaginare.
"In fondo io sono solo un esile e ostinato scrittore di canzoni, che rema molto per dargli un senso e forse non dovrei confrontarmi e parlare di certe cose". Così Marco Parente afferma di sé. E invece di quelle "certe cose", che poi sono la vita e, come dice sempre lui, la vita ("Non è più una questione di vita o di morte ma di vita o vita"), deve parlarne. Perché il senso sta tutto nel fine del viaggio che, con sorriso tipo Monna Lisa, porta avanti con "Neve (ridens)": guardarci - a volte saltando un pò di più, a volte sedendo in attesa, a volte stupendoci per l'isteria del montaggio sonoro - e capire come poter "dar forma alle domande" che continuamente gemmano dal nostro intelletto. Affinché, domandandosi qualcosa, ognuno dia la propria risposta al caos poetico che ci circonda.
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La recensione Neve (ridens) di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-10-04 00:00:00
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