Il dub ha un approccio serio alla musica. Parecchio serio. Sin dagli anni '70, gli anni in cui accidentalmente e molto naturalmente si creò il dub. Dal far girare il lato B dei 45giri per le improvvisazioni e gli sfoghi dei dj ai contenuti forti e diretti. Alla fine acquistò un’ efficace senso di attiva opposizione, di contrasto e di rivoluzione e si legò quasi per sempre al reggae e alle proteste giamaicane. Oggi in alcuni maleducati casi il dub diventa un misero sinonimo di riduzione di suoni fino all’inconcepibile minimale. Non è proprio così.
Gli Earth Ground si categorizzano come produttori di musica dub. E in effetti la musica ci somiglia pure. Forse pure troppo se quel somiglia si trasformerà in ricorda cose già sentite.
I beat sono calmi e perseguitati da indolenti filtri e riverberi pigri come da copione originale, niente di clamorosamente nuovo. Le atmosfere riproducono un’idea corretta del dub, ma manca qualcosa. "Serious Dub" è l’album opener, una traccia seria nell’intenzione ma scontata nel risultato. Il riferimento al dio Jah e al king Silassie Haile, l’imperatore d’Etiopia messia della cultura rasta, è così ripetitivo che annoia, tanto quanto la gran parte di un disco che ha l’assurda pretesa di suonare come Mad professor decretando l’ ambizione severa e distante. "Fayah" è una canzone "solita", cantata da una buona voce capace pure di attirare l’ attenzione se si segue il flow elaborato e le discrete metriche, quasi dimenticando però che potrebbe dire qualcosa invece di ripetere tre frasi avventate per tutta la durata. "Mo’ Fayah" è la sesta, già il titolo ne segnala la ripetizione della suddetta e di un concetto molto profondo e già abbastanza profondamente approfondito del reggae. "In Africa" illude di originalità all’inizio ma poi si allinea tristemente all’impasto quasi privo di variazioni .
Certo i beat ricordano il dub, se si fa riferimento agli effetti classici del genere, ai suoni meditativi, alla sensazione consciuss tipica, ma l’esito è semplicemente poco elaborato su una strumentale che sembra quasi la stessa per 8 canzoni.
Considerando la paternità inglese della musica dub si ascoltano sicuramente innesti di suoni, vibrazioni ed effetti tipicamente d’oltremanica, ma in questa caratteristica conformata vien fuori il peggior difetto di questo disco: quel "respect to roots and culture" diventa un ripetere frasi vecchie e consumate come le origini, suoni assodati come i numerosi rifacimenti alle radici di una cultura che oggi è cresciuta molto, si è evoluta notevolmente e potrebbe realmente esclamare tanto anziché accennare l’usuale.
Un disco ben fatto ma che dice ben poco.
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-01-18 00:00:00
COMMENTI (2)
Forse chi ha scritto la recensione non sapeva che all'interno del progetto c'è anche Paolo Baldini degli Africa Unite altrimenti avrebbe scritto che è un disco ECCEZIONALE...Lecca culo
Normalmente un giudizio specie in ambito musicale dovrebbe essere lontano dal soggettivismo.Questa recensione dimostra come un approccio ad un genere musicale nn conosciuto porta a sminuire un intero lavoro, fatto da gente più che competente in ambito dub.Inoltre oltre a carenza di basi musicali dub reggae qui manca anche una conoscenza storico e successivamente religiosa della figura di Hailè Selassie.La metrica usata in serious dub ad es. è tipica di quel toaster style proveniente dalle liriche dei dj stylee.Non vorrei dilungarmi ma l'utima cosa permettetemelo...respect roots and culture....un concetto profondo che non portà sicuramente alla noia se si capisce il reale significato che va oltre quello letterario...