L'esordio degli Ossi dispiega le sue forze su una enorme utilità comunicativa legata all'idea di un presente da debellare in quanto cancro sociale
Ci sono almeno due motivi basilari secondo i quali l'omonimo album d'esordio del progetto Ossi – nuovo percorso intrapreso da Vittorio Nistri e Simone Tilli dei Deadburger – è un lavoro a dir poco fondamentale per una contemporaneità musicale che torni finalmente ad avere un senso comunicativo che sia definibile come tale, cioè innanzitutto fornito di qualcosa da dire e, in seconda istanza, adeguatamente capace di far arrivare il messaggio nella maniera desiderata ma, al contempo, utile a una ricezione che ne faccia buon uso nel corso della vita quotidiana.
Il primo di questi due motivi può essere quasi esclusivamente sonoro, vista l'impostazione complessiva che guarda a un certo alternative garage rock delle origini trapiantandolo sia su innesti di matrice classica che su una spiccata fascinazione per esperienze psichedeliche legate a una concezione compositiva tanto lisergica quanto delirante nelle sue osservazioni soniche.
Il secondo motivo si direbbe, invece, letteralmente antropologico, sia per la sacra considerazione del supporto di diffusione, sia per l'innata e salvifica abilità dei diretti interessati nel fare concretamente – e davvero senza mezzi termini – il punto della situazione nostrana in seguito a tutta la feccia che siamo stati costretti a ingurgitare in questi ultimi anni tra novax e rivoluzionari della clava, influencer del nulla più assoluto e pruriti sessuali da nuove modalità di conduzione per adolescenze e senilità perverse, delegittimazioni professionali in definitiva caduta libera e realtà politiche in pura crisi allucinatoria da totale distacco nei confronti di una realtà che, intanto, prova comunque a procedere lungo la retta via, nonostante tutto.
Quanto al supporto fisico, sputando in faccia all'attuale bagarinaggio giustificato da fantomatiche dinamiche di mercato e prestando esclusivamente attenzione alla concretezza espressiva dell'oggetto, siamo di fronte a un magnifico vinile gatefold la cui copertina riporta un disegno di Andrea Pazienza e la cui tasca interna, di pari passo, contiene un albo in puro stile fumettistico underground, con riferimento diretto alla controcultura della storica rivista Frigidaire e interamente costruito – come tutto il concept visuale del disco – da Ugo Delucchi, non a caso allievo proprio del compianto Pazienza.
Coadiuvati dalla preziosa collaborazione di vere e proprie eminenze della scena alternative nostrana, vale a dire Dome La Muerte (Not Moving), Andrea Appino (Zen Circus) e Bruno Dorella (OvO, Bachi Da Pietra), Nistri e Tilli mettono nero su bianco un discorso importantissimo e mortalmente serio – per quanto intriso di irresistibile ironia nella sua forma – riguardante una contemporaneità in cui il concetto stesso di psichedelia esistenziale viene in qualche modo depotenziato dal fatto che, a quanto pare, non serve più, oggi, imbottirsi di sostanze stupefacenti per ritrovarsi dinanzi a una realtà percettiva altra. I pianeti immaginari, a tutti gli effetti, sono diventati quello che già abitiamo, con tutto il carico di nonsense che si fa reale e reale che, a sua volta, affoga nel nonsense di vite letteralmente allo sbando, a qualsiasi livello sociale o intellettivo.
E allora ecco nascere, crescere e deflagrare interi mondi elettro-post-punk-rock quasi CCCP ma strutturati su collage tratti da folli realtà di piazza odierne (Ventriloquist rock), incursioni apertamente acid blues narranti precoci gesta sessual-imprenditoriali (Ricariche) e micidiali groove chitarristici perfetti per far deragliare qualsiasi ideale nell'inconsistenza di un mondo post-ideologico (Hasta la sconfitta siempre), impostazioni ora tese verso direzioni acustiche per blues sinuosi e trascinanti (Toy boy) e ora incagliate tra un Blob di Rai3 e un My life in the bush of ghosts firmato Eno/Byrne ma con la più grande cloaca italiota attuale al posto dei found objects etnici (Out demons out).
La concezione garage-blues si fa sempre più acida quando è il sedicente spiritualismo a dimostrarsi melma omofoba e femminicida (Monk time), ma di notevole impatto sono anche le virate dal post-folk-rock a un certo pseudo-industrial-kraut-rock per discorsi di becera finzione mediatica sulle rovine altrui sia fisiche (Miss tendopoli) che professionali e, di riflesso, esistenziali (Naturalmente non possiamo pagarti), mentre incursioni elettroniche più corpose fanno la loro parte in slogan di monodimensionalità social (Lei è grunge, lui urban cowboy), traduzioni post punk acustiche delineano associazioni mafia/politica (O' pisciaturu) e fraseggi rock-blues alla Doors sbeffeggiano il concetto di attrazione da potere (Per sollevare il morale del capo). C'è comunque spazio per un barlume di speranza nella finale neo-psichedelia semi-ballad in memoria di un reale e salvifico rapporto uomo/animale (Navarre, storia di un lupo in fin di vita e della ragazza che lo salvò praticandogli la respirazione bocca a bocca).
Annoverabile fin da ora tra gli album più importanti e concretamente utili dell'annata, l'esordio degli Ossi lascia ben sperare sul presente e sul futuro dell'utilità comunicativa di ciò che intendiamo come musica vera. A patto che il messaggio arrivi alle nuove leve incaricate di prendere in spalla il divenire di un'intera nazione, ovviamente.
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La recensione OSSI di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-09-09 00:00:00
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