Assolutamente perduti nella fragranza cybernetica di rumorismi senza fondo, i confini astratti dei 3eem, cullano l’ascolto sul letto inquieto di un suono oltre ogni possibilità di definizione. Trio all’attivo dal 2003, è quanto di più sperimentale si possa probabilmente offrire alla scena indie oggi (e guarda caso la produzione risponde al nome di una label londinese, magari più disponibile ad accettare un progetto al mio orecchio senza eguali). Me la prendo con calma, voglio bere fino in fondo sette tracce da “Matilda”. Fino in fondo, fino a toccare la burrasca dolce di un pentagramma variegato ed assolto da ogni scatola precostituita.
Fuori è buio, tarda notte (o forse solo presto mattina), cuffie strette. “LoEti” apre il percorso sonoro attraverso il protagonismo di un sax dal sapore vagamente latino, sotto il quale si intreccia una tessitura di manipolazioni elettroniche psichedeliche, in una trance di distorsioni talvolta tipicamente chill-out. E se leccassi un rospo? Mi salta in mente Homer Simpson quando viaggia tra le visioni provocate dal chili piccante e straluna e vede volpi dagli occhi a spirale ed è perdizion-animata. Non è un po’ così? Forse, perché c’ho la sete di dare un nome a quello che mi salta dentro, e mi appiglio al delirio di corrispondenze fuoriluogo. È un pò così.
L’eleganza di strumenti tradizionali (chitarra e sax) spezzata bruscamente/dolcemente da digressioni indefinibili. Resta difficile e rende nervosi non trovare un senso letterario ed un’immagine chiusa a tutto ciò, e forse proprio questo è il bello: restare spaesati nel mezzo di un incrocio musicale altamente eterogeneo. Così “Seven”, culla di strumentazioni tradizionali che lasciano il tuo sonno infastidito da ritmiche minimaliste, dallo scarno prog, dalle profondità metalliche di un dark ridotto ai minimi termini. Sette brani che mettono a fuoco l’idea che sta alla base di tutto: una sorta di rito tribale che procede per sovrapposizioni, tra la certezza del suono familiare e la deviazione dell’interpretazione più estranea, sconfinata nell’industrial manipolato fino agli eccessi. Acuti, stridi, effetti di un transfert. Corto circuito. Figli forse di un certo Tom Yorke. E così pian piano verso la fine, “Toxic Jelly Experience”, a placarsi sui ritmi ‘godibili’ di sonorità ambient, che ti stordiscono appena nel risveglio mortuario di un viaggio extrasonoro. Non esagero, non eiaculo su pentagrammi. Ascolto ciò di cui ti innamori se lasci l’orecchio a penzolarsi oltre i confini della modernità.
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La recensione Matilda di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-12-20 00:00:00
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Thom!