Il concetto è semplice: quintetto da Bologna. Gli ospiti sono rinomati: Carlo Masu e Ferruccio Quercetti (Cut), Jukka Reverberi (Giardini di Mirò). L'artwork e la fotografia sono a cura rispettivamente di un mostro (Tae Won Yu) e una fata (Giulia Mazza), con risultati conseguentemente fiabeschi. La produzione artistica è di un certo livello: Brian Deck (chi non sa chi sia salta la cena); le due etichette pure: Deep Elm da un lato, Unhip Records dall'altro. Dicasi Settlefish il totale (che non è solo la somma) degli addendi precedentemente elencati. E voilà, senza mettersi ad elencare tutti i tour USA e UK, senza menarsela con le collaborazioni e con gli intrecci di nomi e persone e fatti ed eventi. Basta con le recensioni biografia e stop alle telefonate. Quando il pulsante diventa rosso non resta che partire.
C'è una questione particolarmente importante che sta alla base di "The Plural Of The Choir", primo disco del quintetto bolognese con cadenza canadese pubblicato anche per un'italiana e non solo per la 'solita' Deep Elm. La questione non è relativa ai trampoli, bensì alla capacità di mantenere se stessi su un piccolo pezzo di spago. Solo gli equilibristi bravi, infatti, riescono a stare in bilico fra Modest Mouse e At The Drive In senza cadere miseramente nella banalità. I Settlefish sul filo non solo si trovano a loro agio, ma alla quiete preferiscono un nervosismo lucido e ammaliante. Danzano quasi, come se quel filo avesse una piattaforma misurabile non in millimetri, ma in centimetri o qualcosa di più. Eppure non c'è coraggio senza naturalezza. E qui la naturalezza domina. Basti vedere la bravura con cui i cinque mutuano le chiare influenze di cui sopra in un agglomerato chitarristico geneticamente indie, che ha però in una solida base ritmica una decisa spinta propulsiva verso la dinamicità. Se poi ci mettete sopra un cantante emo che sa cantare (non certo una prassi), la convulsione è cosa fatta. I Settlefish non sono solo questo, però. Sono capaci di raffinatezze e sussurri, quando chiedono alle chitarre di muoversi sottovoce e lasciano più spazio al piano, ai tuffi di note e alle cascate di emozioni. Sono poi ottimi piloti di arpeggi, quando come Senna inferociti aggrediscono la curva chiedendo alla macchina di dare tutto e ancora di più, come fosse l'ultima volta. La loro bravura sta nel loro essere se stessi e nel loro farlo bene.
"The Plural Of The Choir" sarà un album che darà soddisfazioni. E' caratterizzato da quel suono che non ha nulla a che fare con l'Italia, ma non è l'ennesima copia carbone sbiadita e annegata nell'olio fritto che siamo soliti sorbire quando gli italiani giocano a fare gli americani o gli inglesi. Io credo ci possa essere credibilità anche facendo musica dal respiro internazionale, che di italiano non ha nient'altro che l'anagrafe. Io credo che si possa farlo perchè, quando si cede alla fascinazioni con la stessa classe di un medio gentleman che bacia la mano sfiorandola solo con un soffio, la donna arrossirebbe indipendentemente dalla lingua in cui le dici che sì, l'ami, perchè non andiamo via insieme? In fondo anche solo mezz'ora potrebbe bastare. Forse.
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La recensione The Plural Of The Choir di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-05-03 00:00:00
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